È vero che l’Astice è immortale?
È vero che l’Astice è immortale?
Ho sempre amato i bar spagnoli soprattutto quelli piccoli e pieni di bucce di noccioline sul pavimento. Un amico di Madrid, anni fa, mi disse che un buon bar deve avere il pavimento pieno di bucce di arachidi e noccioline. Quello è il segnale che la birra è fresca e le tapas sono buone.
Se la gente sta al bancone e continua a stuzzicare cibo e sgranocchiare noccioline, vuol dire che li si sta bene, si ride e si scherza in compagnia.
La vita è strana, negli ultimi anni le cose non erano andate come volevo. Nel lavoro, con gli amici, con l’amore e neppure con il Rugby.
Nulla mi rendeva sereno. Ormai, da troppo tempo non ridevo e non scherzavo in compagnia. Se bevevo una birra la bevevo da solo e quelle poche volte che la bevevo con qualcuno finivo solo per tirar fuori la mia rabbia. Volevo scappare ma non sapevo perché e da cosa. Avevo proprio bisogno di un bar pieno di bucce di arachidi sul pavimento.
Decisi di tornare in Spagna, per qualche giorno e di tornare in un posto particolare. Volevo scrivere, leggere e camminare. Avevo bisogno di stare in un posto dove mi ero sentito bene.
Comprai il biglietto di sola andata e dopo pochi giorni ero lì, nel nascondiglio che avevo scelto con la speranza che qualcosa cancellasse la mia strana e assurda malinconia.
Dopo pochi giorni, ero seduto al tavolino di un bar del Grao, il paesino dei pescatori della Playa de Gandia. Conoscevo bene quel posto ci ero passato tante volte in passato, per lavoro e per amore e mi ero sempre sentito bene.
Era sera, poco prima di cena. Dal mio tavolino vedevo il porto e in lontananza il mare. Il pavimento era come desideravo, zeppo di bucce di arachidi e noccioline. Qualcosa nel mio cervello mi ripeteva che ero al posto giusto.
Ero atterrato nel primo pomeriggio a Valencia, avevo preso la metropolitana e poi la “cercanias”. Il treno regionale che costeggia le spiagge della provincia. Arrivato alla Playa de Gandia mi ero diretto subito verso il Grao, il paese dei pescatori e rapidamente avevo raggiunto un piccolo hostal, dove mi sarei fermato per un po’ di tempo. La stanza non era grande ma era pulita e poi, anche dalla finestra del bagno vedevo il mare.
A piano terra c’era un bar ristorante dove potevo fare colazione, mangiare e ubriacarmi la sera per poi andare a letto e addormentarmi senza troppe ansie o cattivi pensieri. Il pavimento era pieno di bucce di cacahuetes, noccioli di olive e avanzi di patatine.
Gandia è una città molto affollata nel periodo estivo, la sua Playa di sei km è una delle mete turistiche più amate dai madrileni e da molti turisti di tutta Europa. In estate la spiaggia è sempre piena. Locali, chiringuitos e ristoranti affollati.
Il Grao è dall’altro lato del porto. Lì la vita è diversa. I turisti non sono molti. Al Grao vivono i pescatori con le loro famiglie, non ci sono tanti appartamenti da affittare e poi non è vicina alla zona dei locali e neppure alla spiaggia principale. Però lì, la Spagna è un po’ più Spagna e il mare un po’ più mare.
Case basse di pochi piani, piccole vie e qualche bar. Un luogo dove il mare e l’uomo si incontrano. Nell’aria il profumo del Mediterraneo, del pesce appena pescato e nei volti dei pescatori i segni della salsedine, del sole e della fatica. Il posto perfetto dove nascondersi per curarsi, in solitudine, qualche ferita.
Seduto al tavolino, sorseggiavo una birra ghiacciata e guardavo il porto. Alle mie spalle sentivo le urla e i commenti dei pescatori che, davanti la televisione, erano concentrati sulla partita.
Quella sera trasmettevano Valencia contro Real Madrid, una semplice amichevole estiva ma tutti urlavano come se fosse una finale di Champions.
Io fissavo il porto o guardavo il mare, sempre più illuminato dalla luna. Ma guardare il mare ti fa perdere la cognizione del tempo. Lo guardi, inizi a fissarlo e i pensieri si dilatano.
Solo due cose mi distraevano. I goal e la cameriera.
A ogni rete segnata, le urla aumentavano a dismisura e sapevo che, se a segnare fosse stato il Valencia, avrei sentito subito lo scoppio di qualche petardo in strada. Quella sera, il Valencia segnò due goal ma non ricordo se vinse la partita. Ricordo però i ragazzi in strada a far scoppiare i petardi. È una strana usanza ma è così da sempre.
L’altra distrazione era la cameriera, una ragazza di poco meno di trent’anni. Capelli lisci castani, non troppo lunghi, due occhi verdi e le labbra sottili. Aveva un fisico fine, un corpo perfettamente equilibrato, un seno non eccessivo e dei fianchi perfetti. Indossava un vestito di colore bianco ricoperto di piccoli fiori rossi. Il vestito era scollato e corto. Si potevano vedere le sue spalle e le sue gambe abbronzate. Ai piedi, dei semplici infradito verdi.
Sorridendo, girava tra i tavoli velocemente. Ogni tanto si avvicinava e mi chiedeva “Señor otra cerveza?”. Come potevo dirle di no. Guardavo il mare, bevevo birra e mangiavo arachidi.
Non ricordo quanto tempo passò e neppure il numero delle birre ghiacciate. Ma ormai la luna era in cielo e i miei pensieri sempre più diluiti. Lei si avvicinò e con un italiano stentato mi disse “Signore, vuoi mangiare qualcosa. Troppa cherveza! mal de cabeza!” e sorrise.
La cosa fece sorridere anche a me. La guardai e ordinai qualche tapa. Conosco bene lo spagnolo e soprattutto conosco bene la Spagna. Sapevo cosa ordinare e il nome dei cibi.
Lei capì che poteva parlarmi senza problemi e comincio a ridere. Avere un ospite, con cui comunicare in spagnolo la rilassava.
Non è normale che un uomo da solo si fermi in un hostal del Grao e inoltre era un “Guiri”, uno straniero.
Probabilmente non capiva cosa ci facessi lì. In realtà, non lo sapevo neppure io.
La partita era ormai finita, i pescatori abbandonavano lentamente il locale commentando il gioco, gli schemi e le incapacità arbitrali. Ai tavolini ero rimasto solo io.
Quando, anche l’ultimo cliente si allontanò, la ragazza guardò verso l’interno del locale e disse a voce alta “Yayo vieni a sederti qua fuori e mangia qualcosa. È tutta la sera che bevi e sgranocchi cacahuetes! Lo sai che non ti fa bene”.
Yayo significa nonno. Capì che lui era il padrone dell’hostal e lei la giovane nipote che lo aiutava e soprattutto lo curava.
La ragazza insisteva e alzando sempre di più la voce, ripeteva “Yayo vieni a mangiare qualcosa!”. Lui rispose a voce bassa in valenciano “Me ne fott!” o qualcosa di simile, ma obbedì all’ordine della nipote e controvoglia uscì brontolando.
Tutti i tavoli erano liberi ma si sedette al mio. Era un uomo di più di settant’anni. Alto, con un fisico robusto capelli ancora neri corvino, lisci e corti, le mani enormi e piene di calli. Indossava una camicia a quadri azzurri, sbottonata sino a metà petto, dei bermuda color cachi e ai piedi un paio di espadrillas bianche.
Non si preoccupò molto della mia conoscenza dello spagnolo. Si sedette e iniziò a parlare, sicuro che io la comprendessi.
Mi disse “Sono andati via tutti, tra poche ore devono uscire in mare. È giusto che riposino un po’” e aggiunse “Io in mare non vado più da tempo. Ho avuto una brutta avventura. Quella volta il mare mi ha graziato, ma non voglio più permettermi di sfidarlo. Per questo ho venduto la barca e aperto l’hostal”.
Rimase in silenzio per qualche minuto, poi ricominciò.
“Sei italiano vero?” risposi “Si di Milano”. Lui rise e disse “A voi italiani vi riconosco subito, basta guardare le scarpe”. Non capivo e risposi con fare curioso “le scarpe?”. La sua risata aumento di volume “Voi italiani amate le cose belle e indossate sempre delle scarpe perfette”. Io annuì senza commentare e guardai le mie scarpe nuove comprate apposta per il viaggio.
E poi iniziò con le solite cose “Sei del Milan o dell’Inter?”, “Il nostro Jamon è più buono del vostro Prosciutto”, “Molti anni fa sono stato a Roma con un viaggio organizzato dal sindacato pescatori” “a Roma si mangia bene ma non sapete guidare.” Ascoltavo e rispondevo con annoiata gentilezza.
Di colpo si fermo, mi fisso in volto e mi chiese “perché sei da solo?”.
Rimasi bloccato e pensai “Non si deve mai domandare perché?”. Nessuno sa rispondere a caldo a questa domanda. Il cervello va’ in bomba cercando un perché che non si trova.
Inizialmente risposi con un semplice “Non lo so”. Cercai di giustificarmi dicendo “Scappo dallo stress e ho bisogno di riposo”.
Il Yayo, sorseggiando una birra con tono serio, sentenziò “Se sei solo non stai scappando dallo stress ma da te stesso”. Quella frase sbloccò in me qualcosa, senza rendermene conto, iniziai a confidarmi come se fossi sulla poltrona di uno psicoterapeuta.
Non so se fu il mare, la luna o le troppe birre ma tirai fuori tutta la mia tristezza e la mia disperazione. Inizia a raccontare della mia forte depressione e della poca voglia di vivere. Della mia fuga dal mondo, dagli amici e dalle persone che mi volevano bene, raccontai della rabbia e della paura che provavo e che mi stava allontanando da tutto e da tutti.
La ragazza, intanto, aveva portato al tavolo qualcosa da mangiare. Pane, formaggio, un piattino de Jamon Serrano e un piatto di alici fritte. Il Yayo mangiucchiava e mi ascoltava senza intervenire.
Raccontare tutto a un vecchio pescatore mi faceva sentire meglio ma la tristezza rimaneva. Finì il mio sfogo dopo diversi minuti e poi rimasi in silenzio.
Lui mi porse una birra e mi disse “Mangia un po’ di alici, sono buone e fresche. Mangiale con il pane”. Mi sentivo un idiota. A più di 1500 km da casa, mangiando alici fritte e raccontando le inquietudini della mia vita a un vecchio pescatore.
Yayo ruppe il silenzio “Italiano… Tu eres una langosta!” e scoppiò in una fragorosa risata.
Rimasi sorpreso e non capivo. “Cosa significa sei una langosta?”. La langosta in italiano è l’astice! Perché mi vedeva come un astice e perché rideva? Non capivo lo guardai con occhi straniti.
“Non sai cosa significa essere una langosta?” Rise di nuovo e concluse “adesso te lo racconto”
Si sistemò meglio sulla sedia e disse alla ragazza “Basta birre, preparaci un paio di carajillos”.
Pensai!!! Carajillos
NOOO!!? Caffè con il brandy! Avevo già bevuto troppo ma non dissi nulla.
Più che un astice in quel momento mi sentivo un tonno! Mi sentivo ridicolo, ma avevo voglia di conoscere la storia che El Yayo mi avrebbe raccontato e poi avevo voglia di stare lì, di fronte al mare.
Il Yayo si alzò e mi disse “Vieni con me, ti devo far vedere una cosa”. Lo segui all’interno del locale. In fondo al salone principale c’erano due vasche per i pesci. Una in bella vista piena di crostacei, era quella dove i clienti potevano scegliere cosa farsi cucinare, la seconda invece era nascosta dietro un separé di canna e corda.
Mi fece andare dietro il separé e mi disse “Sono Langostas, Astici.. guardali osservali attentamente”. “Sono intelligenti ma a volte fanno cose stupide, come noi uomini”.
E io stupidamente chiesi “Sono le tue? Quelle che ti mangerai tu?”. Mi fisso in volto e rispose “Italiano sei proprio idiota! Loro sono con me da sempre! Non posso certo mangiarle”.
Poi con l’indice della sua mano destra mi indicò alcuni punti della vasca, commentando “Quello a sinistra è il Gordo, lo pescai quando avevo ventinove anni”, “quella dietro il sasso è la Rubia, la pescai cinque anni dopo”, “Poi c’è il Niño che è con me da 15 anni e per ultima la Nena la più piccola. Ma non la vedi si è nascosta perché sta facendo la muta”. Non capivo se mi stesse prendendo in giro. Non mi sembrava possibile che gli astici potessero vivere tanto tempo insieme nella stessa vasca e poi cos’è la muta?
Trovavo comunque la cosa divertente e quindi non dissi nulla.
Lui continuò con la sua spiegazione “Guardali bene, sembrano uguali ma ognuno ha una sua corazza, chi più spessa, chi più fina, chi più lunga e chi no!”. Mi fermai ad osservarli per qualche minuto in silenzio.
Ero concentrato, molto concentrato. Volevo vedere la Nena, stavo fissando un angolo di quello strano acquario perché mi sembrava che qualcosa sotto la sabbia si stesse muovendo, quando lui mi toccò la spalla e mi indicò l’uscita con un gesto della testa.
Mentre tornavamo al tavolo ricominciò a parlare “Italiano, tu sai che molte persone pensano che gli astici siano immortali?” Non mi lascio neppure rispondere e continuò “È una vecchia leggenda. Gli astici non sono immortali ma possono vivere più di cento anni”.
Mi spiegò che gli astici muoiono prima dei cento anni solo se finiscono nelle reti dei pescatori o se qualche predatore riesce a ucciderli. Ma possono morire anche durante la muta. Ci sedemmo.
La ragazza riapparve dopo pochi minuti, sul vassoio due caffè alcolizzati col brandy, una bottiglia di gin, due coppe e un secchiello pieno di ghiaccio. C’era anche un pacchetto di sigari cubani. La serata si presentava complessa.
Bevemmo i carajillos e poi gli chiesi “Ma allora come muoiono gli astici?”. Lui sorrise, “Italiano, eres de secano!”. “Cosa? De secano?”.. Significa uomo di terra ferma.
Certo che sono di terra ferma non so nulla né di mare né di pesci, sono nato e cresciuto a Milano e non so neppure quanto vive un astice o se può vivere veramente in una vasca per cent’anni.
“Ehi italiano! Ascolta bene le mie parole, le parole di un vecchio pescatore! Gli astici continuano a crescere, per tutta la vita ma la loro corazza no, per questo motivo ogni tanto la devono cambiare” “Fanno la muta” e aggiunse “Cambiare la corazza è molto faticoso e muoiono quando non hanno più la forza di farlo, quando non hanno più il coraggio o la capacità di fare la muta, qualunque sia la loro età”.
“Hai capito perché sei come un astice? Tu stai solo cambiando la tua corazza e per questo motivo sei venuto qui a nasconderti”.
Io lo guardai tra il sorpreso e lo stupito.
Yayo continuò con la sua strana spiegazione. Lo ascoltavo con la curiosità di un bimbo.
“Vedi italiano, la muta è difficile, richiede un grosso sforzo ed è pericolosa. L’astice esce con fatica dalla sua corazza, poi si nasconde nel fondale o in una tana buia per non essere predato o attaccato. Soffre, allontana tutti, ha paura di essere ferito, continua così fino a quando la sua nuova corazza si ricostruisce”
In segno di approvazione dissi “Allora, è come se cambiassero pelle”
“Italiano!!!! La corazza non è come la pelle! Non si può curare o guarire come una semplice ferita. Quando la corazza diventa troppo piccola o è danneggiata bisogna cambiarla. Uscire da quella vecchia!” “Bisogna nascondersi da qualche parte e aspettare che quella nuova si ricostruisca”. “La pelle, invece, si ripara. Al limite ti lascia qualche cicatrice ma la corazza no. Quella va cambiata per intero”
Stavo già sorseggiando il primo Gin Tonic e nel mentre mi chiedevo “che ci faccio qui ad ascoltare un vecchio pescatore filosofo?” ma i miei pensieri continuavano a concentrarsi sulle sue strane parole.
Il Yayo, che è nato pescatore, sapeva capire subito quando era il momento giusto di raccogliere le reti. E lui capì in quel momento che io ero pronto ad ascoltarlo. Quindi, continuò a parlare e spiegare.
“La muta non è un passaggio semplice. Nella vita capita più volte. Anche a noi uomini! Può arrivare a tutte le età” si fermò per un sorso di Gin Tonic e continuò “Caro italiano, quelli della muta sono momenti difficili! bisogna stare attenti si può anche morire durante la muta o, peggio, si può rimanere rinchiusi in una corazza che diventa, con il tempo, una gabbia sempre più angusta e piccola. Il corpo non può smettere di crescere e si riempie di ferite inguaribili scontrandosi contro una corazza ormai troppo piccola. Ed è allora che l’astice muore per la disperazione”.
Non capivo più se stesse parlando dell’astice o di me. Ma iniziavo ad avere una risposta alla mia strana malinconia al perché avevo sofferto tanto nell’ultimo periodo.
Secondo la sua strana teoria, mi ero isolato, solo perché stavo cambiando la mia corazza. Allontanavo tutti solo per la stupida ansia del futuro e la paura di essere ferito.
Aveva ragione il Yayo! Ero come un astice che stava cambiando corazza, anzi in quel momento ero un astice spaventato e senza una vera corazza!
Iniziai a pensarci, poi dissi ridendo “Yayo! Fortuna che sono un astice e non sono un tonno! I tonni non mi sembrano tanto intelligenti”. Tutti e due scoppiammo a ridere.
Passarono alcuni minuti e un altro Gin Tonic, quando dalla mia bocca uscì una domanda forse troppo scontata “Ma la vecchia corazza? Che fine fa?”.
Yayo si accese un sigaro, sul volto della nipote apparve uno sguardo di disapprovazione, ma non disse nulla. Lo lasciò fumare.
Lui tiro un paio di boccate e disse “La vecchia corazza rimane sul fondale e si porta con sé i vecchi pensieri, le vecchie paure, le vecchie ferite, i ricordi tristi, le persone che ci non ci sono più e a volte anche gli amori finiti” e aggiunse “le cose belle invece rimangono nel corpo e nell’anima dell’astice, gli serviranno per crescere ancora, quelle non rimangono nel fondo del mare”.
Mi sentivo sempre più leggero, forse più per l’alcol che per la storia dell’astice. Volevo parlare con lui per tutta la notte, fare mille domande!
Ma la ragazza venne al tavolo, levò piatti e bicchieri, raccolse la tovaglia di carta e ordinò “Vai a letto Yayo, si è fatto tardi e stai solo annoiando il signore”.
Ci salutammo. Presi le mie chiavi e salii nella stanza al primo piano.
Mentre dalla finestra guardavo il mare e fumavo l’ultima sigaretta, li sentii passare sulle scale. Lei lo sgridava per via del sigaro, lui un po’ brontolava e un po’ rideva.
Mi sdraiai sul letto. I pensieri si rincorrevano nella mia mente, tra la voglia di lasciare la mia vecchia corazza e la speranza di ricostruirne una nuova. Ma avevamo bevuto e parlato troppo.
Sorridendo, mi addormentai rapidamente e serenamente. Era da troppo tempo che non mi succedeva. Mentre chiudevo gli occhi pensai “Che strano quel vecchio”. Però ha ragione lui, devo ricostruire la mia corazza.
Per farlo ci voleva tempo e decisi di rimanere con loro per un po’. Le giornate passavano veloci. Facevo lunghe passeggiate in spiaggia, leggevo, scrivevo e chiacchieravo con il Yayo. Lui amava giocare a domino e raccontare vecchie storie di amici, di donne, di grandi giornate di pesca, del franchismo, del tentato golpe di Tejero del 1981 e soprattutto del concerto di Raffaella Carrà a Valencia. Ogni tanto aiutavo a pulire i tavoli, spillare la birra o perdevo tempo chiacchierando con le due pettegole cuoche della cucina. A volte, la mattina all’alba, andavo al porto con il Yayo per comprare il pesce direttamente al molo.
Stavo bene ma tutto ha un inizio e una fine o, meglio, un’evoluzione.
Era domenica e mi ero alzato molto presto. Stavo bevendo il caffè al mio solito tavolino. Il Yayo arrivò e mi disse “Italiano andiamo a camminare sulla sabbia fresca, a quest’ora non c’è ancora nessuno”. Mi alzai e lo seguì.
In quell’occasione, il Yayo mi regalò un paio delle sue espadrillas. Erano verdi e lui non le voleva colorate, solo bianche. Aveva il mio stesso numero e mi calzavano bene. Me le diede e disse “non puoi mica rovinare le tue belle scarpe italiane camminando sulla sabbia” e si mise a ridere. Riusciva sempre a farmi sentire un po’ idiota.
Iniziammo a camminare lungo la riva sabbiosa. Guardavo i primi pescherecci che dal largo si dirigevano verso il porto.
Ormai era più di mezz’ora che camminavamo senza parlare.
Non so perché ma in modo spontaneo gli feci una domanda “Yayo ma come fa l’astice a ricostruire la sua corazza?”. Lui mi guardo, sorrise e mi chiese “Gli astici o le persone?”. “Yayo non lo so? Ormai credo che siano la stessa cosa”. Lui rise.
“Italiano, per ricostruire la corazza ci sono delle regole” “e le regole vanno sempre rispettate. Te l’ho già detto, il mare ti grazia solo una volta, ma solo se sei fortunato”.
Continuammo a camminare in silenzio per alcune centinaia di metri poi mi fermai e insistetti in modo più convinto “Yayo, quali sono le regole?”
Lui rise nuovamente e disse “Sei proprio un italiano, de secano e con delle belle scarpe “. La cosa mi indispettì. Lo fissai con uno sguardo di sfida. In quel momento mi resi conto che per la prima volta stavo guardando con attenzione il suo volto. Non lo avevo mai fatto. Avevo riso, parlato, fumato e bevuto con lui ma non mi ero mai concentrato sul suo volto.
La pelle delle guance e della fronte era rugosa, secca, bruciata dal sole e dalla salsedine e i suoi occhi arrossati dalle tante ore passate in mare. Un volto forte, coraggioso ma uno sguardo stanco. Non sapevo più cosa dire ma sapevo che volevo una risposta e stavo cercando di chiederglielo con lo sguardo.
Sorrise, mi fissò, appoggiò la mano destra sulla mia spalla e disse “Hei stai tranquillo italiano…. Adesso andiamo, ricominciamo a camminare che è meglio”.
Dopo pochi metri iniziò a parlare. “La prima regola è forse la più importante. Devi capire quando la corazza che porti sul tuo corpo sta diventando troppo piccola o è troppo trasandata. La corazza va cambiata il prima possibile” “Italiano, questa regola è importante, se non ti accorgi in tempo non riuscirai più a uscirne facilmente e forse non ci riuscirai proprio e la tua anima o il tuo corpo moriranno”.
Volevo commentare ma lui appoggio l’indice sul suo naso in senso di silenzio e continuò
“la seconda regola è trovare la tana dove nasconderti durante la muta. Deve essere un posto dove ti senti sicuro, un posto lontano dai pericoli e dai cattivi pensieri, dalle paure e soprattutto dalle brutte abitudini, come il bere”.
“La terza regola è chiedere aiuto agli amici, lasciare che siano loro a tenere lontani i predatori, devi fidarti di loro. Devi credere alle persone che ti vogliono bene!”
“La quarta regola è non pensare mai alla tua vecchia corazza. Dimenticatela! Dimenticati le vittorie e dimentica i rancori, il passato non ti serve a molto”
“La quinta e ultima regola è avere pazienza. La natura ha i suoi tempi e nessuno li può cambiare, come tu non puoi pensare di fermare la tua storia o la tua crescita. Per avere una nuova corazza ci vuole il giusto tempo…Non è tanto e non è poco ma è quello giusto”.
Volevo fare mille domande ma il Yayo disse “Italiano sono stanco di parlare e di camminare, torniamo a casa”. Non dissi più nulla e ci incamminammo verso l’hostal.
Quella sera c’era la festa dei pescatori e cenammo tutti insieme. Il Grao era illuminato. La musica e le risate riempivano le vie e il vento del mediterraneo raffrescava l’aria e le nostre anime.
Buon pesce e buon vino su tutti i tavoli. Alla fine della cena qualcuno tirò fuori una chitarra e cominciarono a cantare e ballare. Ridevo, cantavo e ballavo anch’io. Ero felice, passarono velocemente alcune ore. Ma anche divertirsi stanca.
Credo fossero le due di notte che mi sedetti al mio tavolo ad osservare gli altri ballare e cantare. Il Yayo si sedette al mio fianco e mi porse un sigaro. Iniziammo a fumare e chiacchierare, come altre volte.
Ad un certo punto dissi “Yayo, guarda che bella festa e guarda quella bella signora! Quella con il vestito verde e bianco è proprio bella, vero?” “Yayo tu sai se è sposata o impegnata con qualcuno?”. Il Yayo mi guardò, si mise a ridere mi diede un buffetto sul collo “Italiano! Stai guardando una donna! Da quanto tempo non lo facevi? Allora vuol dire che la tua muta è finita” insistette ”Questo significa che la tua nuova corazza è già pronta, stai tornando a sognare e desiderare. E bravo il nostro italiano!” poi aggiunse “Ho notato che lei ti ha guardato le scarpe più volte stasera. Con le tue scarpe puoi arrivare ovunque”. Scoppiamo a ridere fino alle lacrime. Fu in quell’istante che capì che era giunto il momento di tornare a casa. Ebbi un attimo di malinconia ma era di quella positiva! Finalmente! Stavo ridendo di felicità!
Il Yayo si fece serio “Italiano è ora che tu vada, tu sei di secano non sei di mare. Non puoi rimanere qui, vai a cercare la serenità nel tuo mondo”. “Ma prima che tu parta, voglio dirti alcune ultime cose. La prossima volta che dovrai cambiare la tua corazza, non tornare qua. Io non ci sarò più. Sono troppo stanco per affrontare una nuova muta e ho già visto molte, troppe cose. Dovrai fare tutto da solo. Non dimenticare mai che il cambio della corazza dipende da noi, la forza sta nella voglia di continuare a crescere e a vivere e di indossare sempre una bella corazza della giusta misura” e per ultima cosa “Ricordati che nessuno ti può aiutare. Non lo fanno per cattiveria ma ognuno ha la sua corazza da curare. Anche chi ti vuole bene può solo limitarsi a difendere la tua tana ad aspettarti con amicizia e amore”.
Poi si alzò e si congedò “Sono stanco vado a dormire”. Lo salutai e rimasi a guardare la gente ballare per un po’ e poi andai anch’io nella mia stanza. Non pensai a nulla, mi riposai per qualche ora e basta.
Al mio risveglio comprai il primo volo last minute per Milano, preparai la valigia, salutai il Yayo e diedi a un grande abbraccio alla nipote e alle due cuoche pettegole.
Mi incamminai verso la stazione e poi all’aeroporto. Atterai a Malpensa verso le 20:00, un forte temporale estivo mi accompagnò verso casa. Ma avevo una corazza nuova e tanta voglia di ricominciare a vivere. Bagnarmi non era certo un problema.
Le mie scarpe italiane, avevo fatto finta di dimenticarmele all’Hostal. Il Yayo aveva il mio stesso numero e sapevo che gli avrebbe fatto piacere. Una specie di stupido regalo in cambio delle sue espadrillas verdi e delle sue fantastiche parole.
Nelle settimane successive la mia vita riprese la sua giusta direzione. Avevo tanta voglia di vedere i miei figli, di lavorare a nuovi progetti. Volevo anche riconciliarmi con le persone deluse dai miei strani comportamenti e soprattutto volevo abbracciare con forza chi mi aveva aspettato. Ci volle tempo ma tutto tornò alla serena normalità.
Mesi dopo, decisi di aprire un’e-commerce per vendere t-shirt, felpe e cappellini con le scritte EL LANGOSTA e EL YAYO a caratteri cubitali. La cosa non funzionò molto bene ma mi interessava poco. Avevo una corazza nuova e le sfide e gli insuccessi non mi facevano più paura.
Finalmente potevo continuare a crescere, a vivere ed amare il mondo e le persone. Dovevo solo stare attento alle reti dei pescatori, ai predatori e ricordarmi di misurare spesso la mia corazza, preparandomi in tempo per la prossima muta.
Dovevo semplicemente seguire le regole che il Yayo mi aveva insegnato, guardando una vasca in un ristorante del Grao, parlandomi di astici.
P.S. Dedicato a tutti coloro che stanno cambiando la corazza!
Mauro D’Onofrio Zannier – Fiore 21
Agosto 2023